Sono quarantaquattro le opere selezionate che aspirano alla cinquina finalista
di Matteo Bianchi
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È cominciata la scrematura dei partecipanti alla prima edizione del Premio Strega Poesia, un’editio princeps apprezzata negli intenti, ma assai divisiva. Dopo settimane di polemica intorno alla possibilità data agli editori di candidare direttamente i loro campioni, il comitato scientifico, costituito da Maria Grazia Calandrone, Andrea Cortellessa, Mario Desiati, Elisa Donzelli, Roberto Galaverni, Valerio Magrelli, Melania Mazzucco, Stefano Petrocchi, Laura Pugno, Antonio Riccardi, Enrico Testa e Gian Mario Villalta, dei centotrentacinque titoli iniziali ne selezionati quarantaquattro che possono aspirare alla cinquina finalista. Lasciando che le case editrici si esprimessero liberamente, sotto la lente di un pool di esperti, la nascita dello Strega Poesia ha messo in discussione, di fatto, le modalità di giudizio di un settore da tempo lacunoso e criticato, ossia il migliaio di premi italiani dedicati alla letteratura contemporanea. L’agognata cinquina sarà annunciata venerdì 19 maggio, al Salone del Libro di Torino.
Le graziate
Nell’elenco spiccano alcune autrici per i tratti singolari delle loro poetiche: in primis “La via del poco” (Al3vie), di Anna Maria Farabbi, che nella premessa al viaggio in versi, manifesta il legame esistenziale tra ogni suo titolo pubblicato e l’editore coinvolto, rigorosamente indipendente. Ogni suo libro, pur avendo una tiratura limitata e connessa al territorio di gestazione, è un lavoro corale rivolto alla collettività. Di Farabbi, inoltre, non si può ignorare la stratificazione dei linguaggi – minerale, vegetale e animale – che funge da tramite per nominare le fragilità dell’essere umano. Parallelamente, in “Apolide” (Mondadori) Mary Barbara Tolusso utilizza un lessico ordinario per scostare il velo di Maya dal quotidiano più scontato e svelarne le tracce invisibili di vacuità, di crudeltà. Il registro colloquiale di Francesca Del Moro, in “Ex madre” (Arcipelago Itaca), scioglie invece la distanza tra il vissuto e la sua insostenibile portata emozionale, riuscendo a non sacrificare la versificazione per favorire le immagini immortalate. Gli anticorpi vetusti del genere poetico, che poco hanno a che fare con le dinamiche del mercato, hanno estromesso dalla contesa tanto “La signorina Nessuno” (Vallardi), di Giorgia Soleri, quanto le “Rime alfabete” (Salani) di Bruno Tognolini, entrambi condizionati dai loro stessi pubblici, e rispettivamente i fan di Damiano dei Måneskin e i lettori in erba.
L’escluso
Tra i tanti, non si spiega l’uscita prematura di “Peste e guerra. La poesia non salverà il mondo” (Interno Poesia), di Paolo Fabrizio Iacuzzi. L’antologia che copre quarant’anni di scrittura in versi, è composta da un’ampia selezione di testi, operata con il curatore Michele Bordoni, e seguita da una corposa intervista tra i due intellettuali, iniziata nel 2021 e durata circa nove mesi. “Ti ho conosciuto nel teatro dei simulacri / del tuo primo libro. Lo lessi nell’orto di guerra / fra Artaud e Bataille. E mi insegnasti la poesia”. Gli archetipi di peste e guerra sincretizzano gli apici della ferinità dell’umano e, al contempo, ne profetizzano la facoltà di riscatto, seguendo nei secoli le contraddizioni di un male quasi più democratico del bene. Tra le pagine il poeta mostra la storia maestra attraverso la dimensione privata, caricando sé stesso e i propri cari di un peso simbolico assolutizzante, e rimarcando un dualismo connaturato tra il sé personale e quello collettivo. “(…) A spiedo tutti // consegnati al tempo dei relitti fatti caino per teatro. / Dove figlio e nipote insieme. Paolo e Fabrizio riportano / in vita gli altri dalla disfatta”. Sono le intuizioni folgoranti di luziana memoria a riassettare il vissuto; è peculiare della sua poiesi tenere insieme ciò che sarebbe incontenibile, così nell’improvvisazione rapsodica l’urgenza di scrivere emerge magmatica e non può essere controllata logicamente, persino nell’atlante di un giardino: “Padre non estirpare da quella schiera l’iris / giallo. Non far sì che ciascuno sia tra sé // e sé intollerante. Lascia che io adorando / lo veda in uno stuolo beato fatto di brina”. L’assemblamento letterario-teatrale di questi scorci semantici compartecipa alla narrazione etica del passato e alla creatività sul futuro, non dalla pretesa salvifica attribuita alla poesia, ma a partire da essa.