di Nella Roveri dal blog culturale CasaMatta
Può sembrare azzardato e improprio accostare due figure femminili, distanti un secolo, ma, da quando Anna Maria Farabbi ci ha offerto la possibilità di leggere le pagine di Louise Michel, la relazione con Germaine Tillion per me è stata immediata. Germaine nasce due anni dopo la morte di Louise e non c’è traccia nelle sue scritture di una conoscenza diretta della militante anarchica, eppure molto le accomuna: la passione per la conoscenza, lo spendersi sempre in prima persona, l’attenzione per i propri simili e per i più svantaggiati, la detenzione in carcere, nella colonia penale e in campo di concentramento, la capacità di incontrare popoli lontani e di guardare ai loro costumi senza la spocchia dell’occidentale, anzi del francese colto e colonialista. E, in mezzo a molto altro, lo sguardo femminile, quello che non imita mai il modello dominante maschile, ma si pone autentico di fronte alle situazioni, riconosce e agisce la differenza femminile, nell’ordine simbolico materno. Per entrambe, non spose e non madri, la madre è la genealogia degli affetti, una sorta di archetipo del bene e dell’amore, per Louise non privo di conflitto, per Germaine legame di profonda intesa, per entrambe la persona a cui restituire protezione, difesa e senso sacro dell’appartenenza affettiva. “Coloro che non conoscono i rivoluzionari pensano che essi non amino i loro cari, poiché li sacrificano sempre all’idea. In realtà, li amano ancora di più in tutta la grandezza del sacrificio”.
La vita di Louise Michel è dominata dalla parola, la parola d’insegnante che non accetta di giurare fedeltà all’imperatore e crea una scuola sua nella quale mette in pratica i metodi che valorizzano la formazione professionale e personale delle allieve e degli allievi; la parola che incita i compagni di rivoluzione; la parola che risponde altera nei tribunali, affermando la “via della pace”, e quella che si modella su una lingua straniera, considerata primitiva, quella dei Canachi.
Germaine Tillion fa dell’osservare l’azione costante della sua lunga esistenza, più che centenaria: osserva le azioni dei Berberi dell’Aurès nel nord algerino, giovane etnologa sulla scia di Marcel Mauss, entra a Parigi nella Resistenza, viene catturata e deportata a Ravensbrüch. Lì, nascosta in uno scatolone, osserva i movimenti delle deportate che vengono definite verfügbar, le “disponibili”, quelle che con qualche stratagemma riescono ad evitare il lavoro di produzione d’armi alla fabbrica Siemens, e scrive una pièce teatrale tragica e ironica, che le vede protagoniste. Scampata al campo di concentramento e rientrata in Francia si dedica alla storia recente del suo paese, alla resistenza e alla deportazione. Con lo spirito accorto della memoria scrive Ravensbrüch, lo scrive tre volte, ogni volta con una lente più fine, perché nulla sfugga alla sua capacità di cogliere carattere e dettagli. Viene poi chiamata per una missione in Algeria; il suo compito è osservare la popolazione civile e rilevare i segni premonitori della guerra. Al tempo del conflitto algerino pareva necessario schierarsi o dalla parte del FLN o dalla parte dell’Algeria francese. Germaine non accetta un mondo diviso in bianco e nero e si attira la riprovazione di tutte le parti in campo, compresi gli intellettuali parigini che a priori hanno deciso la ripartizione del bene e del male.
Questa idea che una divisione manichea della storia non regge alla prova dei fatti delinea ulteriori fili di affinità: Louise ragiona su coloro che vengono messi ai margini per ragioni di devianza o per problemi psichici e insiste sulla possibilità di un recupero, anche attuando metodi nuovi, basati ad esempio sull’uso della musica. “Ci sono realtà che comprendiamo a stento, perché ne vediamo solo una parte. Strappiamo i veli, troppo lenti a cadere da soli, e la luce verrà.
Servirsi esclusivamente delle forze materiali e lasciare inattive quelle invisibili, che hanno una potenza estremamente maggiore, è un grande errore”
“Per fare questa luce, dice ancora Louise Michel, occorrono due fiamme: la scienza e l’amore per l’umanità”.
Germaine chiama questa luce “passione di capire e tenerezza per i propri simili”. Non esita a lanciarsi in un’indagine sul campo per pacificare il conflitto franco-algerino, incontra i capi delle fazioni nella casbah di Algeri, vuole negoziare una tregua e deve cominciare da quello più disposto a cedere rispetto alla violenza; riesce a ottenere da Yacef Saadi che non venga coinvolta la popolazione civile. Saranno però i francesi a rompere la tregua con tre esecuzioni nelle carceri di Algeri e Germaine pensa che le parti in conflitto siano “due terrorismi faccia a faccia” che si comportano come gli stupidi alci del Canada che si combattono intrecciando le corna e finiscono con il morire immobilizzati. In una simile lotta tutti sono perdenti, non c’è narrazione eroica, solo il racconto tragico dei danni.
E Louise è il suo controcanto: “Quando i greggi divengono minacciosi li si decima nel mattatoio delle guerre”.
C’è poi una vena ironica, uno scarto dialogico, nel rapporto che entrambe hanno con i tribunali e le accuse che vengono loro rivolte.
Louise, davanti al Sesto Consiglio di guerra: “…ripeto che non voglio difendermi. Voi avete il viso scoperto. Anch’io. Vi guardo in faccia. Voi siete il consiglio di guerra, io sono una donna della Rivoluzione sociale! Difendermi… a che scopo? Non cambierei la vostra sentenza. Sono qui nelle vostre mani…”. E Germaine, catturata come partigiana, prima della deportazione, dalla sua cella scrive al presidente del tribunale che le ha appena inviato un atto di accusa che prevede la condanna a morte e confessa in modo ironico di aver praticato la magia, anche se i suoi poteri hanno limiti: “Se questi signori della polizia tedesca hanno realmente perduto la loro innocenza, sono incapace di rendergliela”.
Ma è lo sguardo sul mondo femminile che merita una più accurata attenzione. A Ravensbrüch Germaine osserva il modo che le donne hanno di vivere l’esperienza estrema del campo e nota come la solidarietà si muova anche in quell’ambito, più acuta ed efficace rispetto ai campi maschili, sostenuta dalla cura reciproca sulle ferite del corpo, sulla nudità, sugli esperimenti medici, sulla testa rasata, sul pallore, la magrezza, l’abbandono della volontà. Basta un cucchiaio prestato, un pezzetto di pane e anche il divertimento intorno a un canto proposto e intonato per smorzare il dolore. L’etnologa fa anche qui dell’osservazione la sua pratica consueta, non dissimile dalla capacità di Louise Michel di cogliere la forza delle donne nella battaglia per la Comune di Parigi: “Tra i più implacabili lottatori che combatterono l’invasione e difesero la Repubblica come fosse l’aurora della libertà, le donne sono numerose. …Le donne non si chiedevano se una cosa fosse possibile ma se fosse stata necessaria, solo così riuscivano a compierla”.
E, nei Mémoires, Louise annota “Confesso che ci sarà del sentimento: noi donne non abbiamo pretese di sradicare il cuore dai nostri petti, noi troviamo l’essere umano, stavo per dire la bestia umana, molto incompleto così come è. Preferiamo soffrire e vivere sia nel sentimento che nell’intelligenza”. Ecco che torna quella “passione di capire e tenerezza per i propri simili” affermata da Germaine Tillion, una strada aperta alla riflessione sulla differenza.