Anna Maria Farabbi sta attualmente lavorando alla traduzione del testo In the beginning there was darknessdi John M. Hull i cui diritti sono stati acquistati dalla casa editrice inglese SCM. Il libro verrà pubblicato nel catalogo Al3viE nel 2022.
La collana Signatureoffre un percorso di ritratti dialoganti che ci consegnano intensità di vite e di riflessioni. Ogni protagonista, nella propria specificità, umanamente, politicamente, artisticamente, socialmente, compie con la sua esistenza e la sua opera una testimonianza potente e seminante, controcorrente, motivando sempre e narrando la sua vita altra.
Questo incontro recupera -il verbo recuperare è una cellula verbale, esistenziale, etica, per me imprescindibile – la perla di un’opera corale incentrata sul significato di cecità e ipovisione, intitolata Luce e notte, esperienze dell’immagine e dell’assenza, edita nel 2008, da LietoColle, da me curata assieme a Lucia Gazzino. Voglio ricordare che il libro ospitava anche una delle voci più interessanti del panorama intellettuale e artistico del secondo novecento, Gianfranco Draghi (Bologna 1924, Firenze 2014): poeta, scultore, psicanalista, tra i primi presidenti dell’Associazione italiana di psicologia analitica, dopo la morte del suo fondatore Bernhard, a fianco di Alfredo Spinelli per una cultura europea federalista. Nell’antologia, ho riportato la trascrizione di una delle nostre infinite, lunghissime, amichevoli, telefonate in cui narra la sua esperienza di ipovisione.
Quel libro fu da me voluto per mettere a fuoco un mio percorso personale di ricerca all’interno della sofferenza, dell’handicap psichico e fisico, della diversità in una cultura d’ascolto, cura, arricchimento, crescita spirituale e intellettuale, gesto inclusivo, sociale e politico, di complementarità e solidarietà. L’antologia di apre, dopo la prefazione, proprio con perla di quell’opera, appunto, con la mia intervista a John M. Hull.
La sua parola spalanca le porte del buio.
La riedizione dell’intervista è necessaria, dopo la sua uscita fuori catalogo, perché rivitalizza la qualità della sua sostanza. In Italia, rimane l’unica occasione di incontro con questo straordinario pensatore.
Con l’analisi dei due testi Il canto dell’altalena, La tela di Penelope, proposti insieme da Pièdimosca in coedizione con Al3vie, marchio Kaba edizioni, che vengono collocati a scansioni fondamentali della scrittura di Anna Maria Farabbi, si richiamano rapporti significativi con altre opere dell’autrice.
Questa prima pubblicazione nella Collana Orto segna e illumina una via importante che si apre con una coedizione fra Al3viE e Pièdimosca (Collana Semi).
Un progetto ricco, unico, speciale all’insegna della collaborazione, fra le due realtà editoriali e la stessa autrice Anna Maria Farabbi, dell’unione e della condivisione delle proprie esperienze, dei valori e di una conoscenza che necessita comunque sempre di un costante lavoro, attento e minuzioso, nel proprio viaggio personale e professionale per accogliere e riconsegnare all’altro, agli altri.
Può sembrare azzardato e improprio accostare due figure femminili, distanti un secolo, ma, da quando Anna Maria Farabbi ci ha offerto la possibilità di leggere le pagine di Louise Michel, la relazione con Germaine Tillion per me è stata immediata. Germaine nasce due anni dopo la morte di Louise e non c’è traccia nelle sue scritture di una conoscenza diretta della militante anarchica, eppure molto le accomuna: la passione per la conoscenza, lo spendersi sempre in prima persona, l’attenzione per i propri simili e per i più svantaggiati, la detenzione in carcere, nella colonia penale e in campo di concentramento, la capacità di incontrare popoli lontani e di guardare ai loro costumi senza la spocchia dell’occidentale, anzi del francese colto e colonialista. E, in mezzo a molto altro, lo sguardo femminile, quello che non imita mai il modello dominante maschile, ma si pone autentico di fronte alle situazioni, riconosce e agisce la differenza femminile, nell’ordine simbolico materno. Per entrambe, non spose e non madri, la madre è la genealogia degli affetti, una sorta di archetipo del bene e dell’amore, per Louise non privo di conflitto, per Germaine legame di profonda intesa, per entrambe la persona a cui restituire protezione, difesa e senso sacro dell’appartenenza affettiva. “Coloro che non conoscono i rivoluzionari pensano che essi non amino i loro cari, poiché li sacrificano sempre all’idea. In realtà, li amano ancora di più in tutta la grandezza del sacrificio”.
La vita di Louise Michel è dominata dalla parola, la parola d’insegnante che non accetta di giurare fedeltà all’imperatore e crea una scuola sua nella quale mette in pratica i metodi che valorizzano la formazione professionale e personale delle allieve e degli allievi; la parola che incita i compagni di rivoluzione; la parola che risponde altera nei tribunali, affermando la “via della pace”, e quella che si modella su una lingua straniera, considerata primitiva, quella dei Canachi.
Germaine Tillion fa dell’osservare l’azione costante della sua lunga esistenza, più che centenaria: osserva le azioni dei Berberi dell’Aurès nel nord algerino, giovane etnologa sulla scia di Marcel Mauss, entra a Parigi nella Resistenza, viene catturata e deportata a Ravensbrüch. Lì, nascosta in uno scatolone, osserva i movimenti delle deportate che vengono definite verfügbar, le “disponibili”, quelle che con qualche stratagemma riescono ad evitare il lavoro di produzione d’armi alla fabbrica Siemens, e scrive una pièce teatrale tragica e ironica, che le vede protagoniste. Scampata al campo di concentramento e rientrata in Francia si dedica alla storia recente del suo paese, alla resistenza e alla deportazione. Con lo spirito accorto della memoria scrive Ravensbrüch, lo scrive tre volte, ogni volta con una lente più fine, perché nulla sfugga alla sua capacità di cogliere carattere e dettagli. Viene poi chiamata per una missione in Algeria; il suo compito è osservare la popolazione civile e rilevare i segni premonitori della guerra. Al tempo del conflitto algerino pareva necessario schierarsi o dalla parte del FLN o dalla parte dell’Algeria francese. Germaine non accetta un mondo diviso in bianco e nero e si attira la riprovazione di tutte le parti in campo, compresi gli intellettuali parigini che a priori hanno deciso la ripartizione del bene e del male.
Questa idea che una divisione manichea della storia non regge alla prova dei fatti delinea ulteriori fili di affinità: Louise ragiona su coloro che vengono messi ai margini per ragioni di devianza o per problemi psichici e insiste sulla possibilità di un recupero, anche attuando metodi nuovi, basati ad esempio sull’uso della musica. “Ci sono realtà che comprendiamo a stento, perché ne vediamo solo una parte. Strappiamo i veli, troppo lenti a cadere da soli, e la luce verrà.
Servirsi esclusivamente delle forze materiali e lasciare inattive quelle invisibili, che hanno una potenza estremamente maggiore, è un grande errore”
“Per fare questa luce, dice ancora Louise Michel, occorrono due fiamme: la scienza e l’amore per l’umanità”.
Germaine chiama questa luce “passione di capire e tenerezza per i propri simili”. Non esita a lanciarsi in un’indagine sul campo per pacificare il conflitto franco-algerino, incontra i capi delle fazioni nella casbah di Algeri, vuole negoziare una tregua e deve cominciare da quello più disposto a cedere rispetto alla violenza; riesce a ottenere da Yacef Saadi che non venga coinvolta la popolazione civile. Saranno però i francesi a rompere la tregua con tre esecuzioni nelle carceri di Algeri e Germaine pensa che le parti in conflitto siano “due terrorismi faccia a faccia” che si comportano come gli stupidi alci del Canada che si combattono intrecciando le corna e finiscono con il morire immobilizzati. In una simile lotta tutti sono perdenti, non c’è narrazione eroica, solo il racconto tragico dei danni.
E Louise è il suo controcanto: “Quando i greggi divengono minacciosi li si decima nel mattatoio delle guerre”.
C’è poi una vena ironica, uno scarto dialogico, nel rapporto che entrambe hanno con i tribunali e le accuse che vengono loro rivolte.
Louise, davanti al Sesto Consiglio di guerra: “…ripeto che non voglio difendermi. Voi avete il viso scoperto. Anch’io. Vi guardo in faccia. Voi siete il consiglio di guerra, io sono una donna della Rivoluzione sociale! Difendermi… a che scopo? Non cambierei la vostra sentenza. Sono qui nelle vostre mani…”. E Germaine, catturata come partigiana, prima della deportazione, dalla sua cella scrive al presidente del tribunale che le ha appena inviato un atto di accusa che prevede la condanna a morte e confessa in modo ironico di aver praticato la magia, anche se i suoi poteri hanno limiti: “Se questi signori della polizia tedesca hanno realmente perduto la loro innocenza, sono incapace di rendergliela”.
Ma è lo sguardo sul mondo femminile che merita una più accurata attenzione. A Ravensbrüch Germaine osserva il modo che le donne hanno di vivere l’esperienza estrema del campo e nota come la solidarietà si muova anche in quell’ambito, più acuta ed efficace rispetto ai campi maschili, sostenuta dalla cura reciproca sulle ferite del corpo, sulla nudità, sugli esperimenti medici, sulla testa rasata, sul pallore, la magrezza, l’abbandono della volontà. Basta un cucchiaio prestato, un pezzetto di pane e anche il divertimento intorno a un canto proposto e intonato per smorzare il dolore. L’etnologa fa anche qui dell’osservazione la sua pratica consueta, non dissimile dalla capacità di Louise Michel di cogliere la forza delle donne nella battaglia per la Comune di Parigi: “Tra i più implacabili lottatori che combatterono l’invasione e difesero la Repubblica come fosse l’aurora della libertà, le donne sono numerose. …Le donne non si chiedevano se una cosa fosse possibile ma se fosse stata necessaria, solo così riuscivano a compierla”.
E, nei Mémoires, Louise annota “Confesso che ci sarà del sentimento: noi donne non abbiamo pretese di sradicare il cuore dai nostri petti, noi troviamo l’essere umano, stavo per dire la bestia umana, molto incompleto così come è. Preferiamo soffrire e vivere sia nel sentimento che nell’intelligenza”. Ecco che torna quella “passione di capire e tenerezza per i propri simili” affermata da Germaine Tillion, una strada aperta alla riflessione sulla differenza.
Ci sono funerali che si assomigliano. Anche a decine e decine di anni di distanza. Al suo vennero da tutta Europa, operai, militanti, lavoratori. Era morta a Marsiglia, dopo l’ennesima conferenza sui bisogni e sui diritti dei lavoratori, che andava tenendo dappertutto, anche oltre i confini, in Inghilterra, in Algeria, da quando a cinquant’anni era tornata in Francia. Aveva subito ripreso la partecipazione attiva alle lotte politiche e sociali, come due storiche Internazionali Anarchiche, varie manifestazioni e comizi per denunciare la condizione di lavoratori e disoccupati, insieme alla fondazione di giornali politici e di scuole anarchiche, alla pubblicazione di romanzi impegnati nei temi sociali e di Memorie della sua esperienza politica e personale. Attività, creazioni, scelte che per lei avevano, tutte, il medesimo significato rivoluzionario. Per questo, appunto, arrestata e incarcerata tante volte, sempre con il suo slancio di condivisione solidale con gli altri perseguitati, sempre con la sua orgogliosa sfida a tribunali e potere borghese. Fino a divenire bersaglio di due colpi di revolver di Pierre Lucas, un giovane cattolico, che in fondo crede nella stessa convinzione anarchica dell’efficacia dell’isolato gesto terroristico. Che lei non solo non denunciò, ma si diede da fare per farlo liberare. Il perché, lo disse in poesia:
Questo figlio delle coste di Armorique, / (…) / se ne andava sognante e mistico / tra i grandi venti dal soffio amaro / guardando sia l’oceano terribile / che la terra inesorabile per i poveri / privi di ogni consolazione. // Sentendo il risucchio nero delle folle, / il suo cuore cominciò a frangersi, / senza comprendere le grandi mareggiate / da cui ci lasciamo portare, / tutte le mute collere/ che si ammucchiano in tempeste / lo avvolsero per spezzarlo. // (…) / Le nostre cose per lui sono irreali, / lasciatelo sulle sue cupe spiagge, / (…) // Per noi quest’uomo è ancestrale / dei tempi dell’antro nel fondo dei boschi. / (…) / Tra noi ci sono infiniti giorni. / Che resti libero nella sua ombra./ Per lui non abbiamo leggi. (Il Bretone, da Germinale 1881-1901) pp.117-8
Incredibilmente più tollerante con lui delle invettive che invece, più giovane, aveva lanciato contro quelli che non avevano né il coraggio né l’intelligenza di ribellarsi all’oppressione e ai soprusi, contro, soprattutto, la rassegnazione fatalistica:
(…) /Nessun vigliacco per non soffrire di tradimenti / la folla vile beve mangia dorme / visto che vuoi aspettare aspetta credi ai maestri / non ne hai dunque abbastanza dei morti. // Il sangue dei tuoi figli vermiglia la terra / dormi nel carnaio tra le pareti sorde / dormi mentre si ammucchiano ape su ape / i cupi sciami dei sobborghi. / (…) (Il popolo, A coloro che gridavano “Ai prussiani” su Eudes e su Brideau prigionieri, Montmartre 1870) p.105
“(…) Ma bisogna pur rassegnarsi! –, disse. – Non possiamo mangiare tutti i giorni! – (…) Quando la donna diceva questo con la sua aria calma, mi si infiammavano gli occhi per la rabbia (…) – Mi indigno per ciò che credete e cioè che tutto il mondo non possa avere pane tutti i giorni. – Questa stupidità di gregge mi inorridiva. Non bisogna parlare così, per carità! – Disse la donna – Ciò farà piangere il buon Dio! Avete visto i montoni tendere la gola al coltello? Questa donna aveva una testa di pecora.” pp.160-1
Se quest’ultimo è un ricordo di quando era bambina, non sarebbe opportuno dedurne una maturazione violenta e sanguinaria; tutt’altro. Anche perché, all’inizio di Memorie, attribuisce alle donne un ineludibile rifiuto della violenza, della “bestialità umana”:
“Confesso che ci sarà del sentimento: noi donne non abbiamo pretese di sradicare il cuore dai nostri petti, noi troviamo l’essere umano, stavo per dire la bestia umana, molto incompleto come è. Preferiamo soffrire e vivere sia nel sentimento che nell’intelligenza. (…) Se l’uguaglianza fra i due sessi fosse riconosciuta, sarebbe una grandiosa breccia nella bestialità umana.” (p.131, p.136)
Nella raccolta di conferenze Presa di possesso, pubblicato nel 1890, dichiarerà esplicitamente: “E’ necessario che i diseredati, i fuorilegge scelgano non la forza ma il diritto.” (p.41) e con uno sguardo che si apre a tutto tondo: “L’uguaglianza, l’armonia universale per gli uomini, come per tutto ciò che esiste.” (p. 45). Importante per lei questo obiettivo, che include anche gli animali e le piante:
(…)Quelle lotte spietate / vengono per giorni migliori. / Si deve essere implacabili / e, allo stesso tempo, soccorrevoli / verso insetti e fiori. // Che sogno! Il mondo infine libero, / il dolore morto, il male morto, / e tutto ciò che pensa o vibra / trovando la china, l’equilibrio, / la sua nota, nell’immenso accordo. // (…) // La grande opera dentro cui i tempi ci conducono / non è creazione di uno solo / ma di tutta la schiera umana, / (…) // Si comprenderà l’essere, la pianta, / chi ulula, confusamente, / le foreste, i venti, / la tormenta, / i fiori neri, la folle grondante / il progresso che senza tregua ci chiama. // (…) (Da Germinale, I tempi eroici, II, pp. 121-2)
“E’ che tutto va insieme, dall’uccello di cui si distrugge la covata, fino ai nidi umani decimati dalla guerra. (…) Dai nostri tempi maledetti verrà il giorno in cui l’uomo, cosciente e libero, non torturerà più né il suo simile, né le bestie. Per questa speranza vale la pena attraversare l’orrore della vita.” (da Memorie, XI, p.143; XV, p.145)
Non rimane esercizio di vuote parole. Persino nella cella a Clermont soccorre e convive con la topina che va a sgranocchiare pezzetti di pane nel suo letto, e che, quando viene trasferita, raccomanda “alla pietà di tutti”. Fu anche accusata, da compagni di lotta sulla barricata da Perronet a Neully, durante la resistenza disperata della Comune, di avere abbandonato il suo posto per soccorrere un gatto:
“La disgraziata bestia, rannicchiata in un angolo tempestato di granate, chiamava come un essere umano. Sì. Sono andata a cercare il gatto. Non ci è voluto che un minuto. L’ho messo al sicuro spostandolo di un solo passo!” (Da Memorie, Seconda parte, p.164)
Con preveggenza quasi freudiana, lei stessa annota un episodio della sua infanzia che ipotizza a origine di tante sue scelte etiche:
“Mi capita spesso, risalendo all’origine di certe cose, trovare una forte sensazione che provo ancora oggi dopo tanti anni. Così, la vista di un’oca decapitata che camminava con il collo sanguinante e levato, rigido con la piaga rossa dove la testa mancava. Un’oca bianca, con gocce di sangue sulle piume, camminando come ebbra mentre a terra giaceva la sua testa, gli occhi chiusi gettati in un angolo, ebbe per me conseguenze multiple. (…) Mi era impossibile allora elaborare questa impressione, ma la ritrovo nel fondo della mia pietà verso gli animali, e poi nel fondo del mio orrore per la pena di morte.” (da Memorie, pp. 158-9)
Non era per le esecuzioni sommarie, anche se era consapevole dell’inevitabile violenza durante una rivoluzione; al processo, nel dicembre del 1871, del Sesto Consiglio di guerra che la accusa, come comunarda, tra le altre imputazioni, di “complicità, in provocazione e macchinazione, per l’assassinio di persone trattenute (…) come ostaggi della Comune”, dichiara:
“Non voglio né difendermi né essere difesa. Appartengo alla Rivoluzione sociale e accetto la responsabilità dei miei atti! Quanto all’assassinio del generale Lecomte, confesso che gli avrei sparato, se fossi stata presente quando ordinò di far fuoco sul popolo ma, una volta divenuto nostro prigioniero, la sua persona divenne sacra.” p.20
Nella raccolta giovanile di saggi e racconti Il libro di Herman, quasi certamente precedente l’esperienza della Comune, espone riflessioni sorprendentemente anticipatorie sul tema della “devianza, cercando di individuare crune di ascolto, possibilità di relazione, recupero dell’individuo criminale e della persona con problemi psichici, nel loro stadio infantile o adulto”[i], affermando tanto l’importanza dell’amore[ii] da parte di chi vuole recuperare il corpo e la mente dei disabili psichici, quanto l’individuazione di nuovi metodi di contatto, come la musica. Nel Libro della prigione, scritto tra il 1872 e il 1873, cioè tra la violenza del campo di Satory, vero e proprio lager, dove fucilarono molti comunardi, e l’imbarco per la deportazione all’altro capo del mondo in Nuova Caledonia, scrive con una lungimirante nettezza che sbalordisce:
“Ammettere che il crimine sia una malattia, e persino contagiosa, non vuol dire giustificarla così come lo si fa con la peste. Occorre cercare la causa per trovare rimedio. (…) Rimettiamo qui l’idea dominante del libro: (…) la società si difende e non si vendica.”(p.30)
“Quale singolare studio quello dedicato alle prigioni! E se voi sapeste come basterebbe poco per trasformarle in atelier per laboratori e lezioni da cui si uscirebbe migliori e più istruiti.” (dalla lettera Al cittadino Th.Ferré, Versailles, 16 settembre 1871, mezzanotte, p.56)
Arrivando persino a considerare possibilmente positiva l’esperienza che andava ad incontrare in Nuova Caledonia, la colonia penitenziaria, se fosse stata considerata non come galera, ma “come famiglia”, dove mettersi alle spalle la eventuale precedente vita delittuosa, per iniziare “un’esistenza nuova”, con la creazione di “nuove città”, nuove relazioni anche “con l’antico mondo” originario (p.30). E infatti non solo in partenza per la colonia penale si entusiasma come per un viaggio d’esplorazione, ma con descrizioni di bellissima poesia così vive il viaggio, che fu, peraltro, lungo, spesso tempestoso, ai limiti della sopravvivenza:
“C’erano dei giorni in cui il mare era grosso, il vento soffiava nella tempesta. La scia della nave tracciava come due collane di diamanti, che si ricongiungevano in una sola corrente scintillante al sole ancora un po’ lontano. (…) L’alto mare del Capo fu per me un’estasi. Non avevo mai visto prima di allora, prima della Comune, che Chaumont e Parigi e i suoi dintorni (…) e ora, che tanto avevo sognato di viaggiare, mi trovavo in pieno oceano, tra cielo e acqua, come tra due deserti, dove non si udivano che onde e vento.”(Da La Comune, parte V, p.88)
E là, in Caledonia, trasforma la sua prigionia di sette anni in operosa costruzione di prospettive, riprendendo ad organizzare scuole per i figli dei deportati, per le ragazze, anche per gli indigeni Canachi, di cui impara la lingua e studia la cultura; fondando un giornale, appassionandosi a studi dal vivo sui costumi locali indigeni e sul mondo animale e vegetale (richiesti nientemeno che dall’Istituto Francese di Geografia!), mettendosi in contatti di grande partecipazione umana[iii] e di concreta solidarietà sociale con gli indigeni, come quando si schiera apertamente con la rivolta dei Canachi contro i francesi nel 1878.
E’ una donna che non lascia facilmente scivolare sulla pagina le sue emozioni più personali ed intime, ma che intuiamo probabilmente innamorata di Théophile Ferré, un rivoluzionario di primo piano della Comune, a cui scrive dal carcere, prima che lui sia fucilato a Satory: “A parte l’ansia che provo per voi, niente mi può ferire e loro lo sanno bene.”. Fin da giovanissima aveva comunque idee molto precise sul valore dell’essere donna e sul matrimonio, idee che la portarono a rifiutare drasticamente ogni proposta di sposarla; comunque mai per lei la lotta rivoluzionaria si dissociò dall’esigenza di vedere riconosciuta la propria forza di genere:
“Per le povere madri ci sono ben tante torture, moltiplicate dal matrimonio e dai legami di famiglia. Sì! bisogna allora essere nient’altro che combattenti. (…) coloro che mi avevano chiesto in matrimonio mi erano cari come fratelli al punto che è impossibile considerarli mariti. Dire perché non saprei davvero, come tutte le donne ho posto il mio sogno altissimo, oltre, tenendo conto della necessità di restare libera per l’epoca della lotta suprema. Ho sempre considerato come una prostituzione ogni unione in cui non ci fosse amore. (…) Per conto mio compagni, non ho voluto essere la minestra dell’uomo, e me ne sono andata attraverso la vita, con la vile moltitudine, senza donare schiavi ai Cesari. (…) se l’uomo regna facendo tanto rumore, è la donna che governa silenziosamente. Ma tutto ciò che si fa nell’ombra non vale niente. Questo potere misterioso, una volta trasformato in uguaglianza, farà sparire le piccole vanità meschine e i grandi inganni. Allora, non ci saranno più né brutalità del padrone né la perfidia dello schiavo. (…) Non bisogna separare la casta delle femmine dall’umanità. Non ci sono mercati dove le si vende, ma nella via, sulle vetrine dei marciapiedi, le belle figlie del popolo, mentre le figlie dei ricchi sono vendute per la loro dote. L’una la prende chi vuole, l’altra si dona a chi vuole. La prostituzione è lo stesso. (…) Lo schiavo è il proletario. Il più schiavo tra tutti è la donna del proletario. (…) I vostri titoli? Ah beh! Noi non amiamo gli stracci. Fate ciò che volete. E’ troppo rappezzato o troppo poco per noi. Ciò che vogliamo è la scienza e la libertà. (…) Che! Voi conoscete Louise Michel? (…) E’ una donna dopotutto! E questo è il colmo! Sì, solamente se si potesse deriderla un po’ dicendole che le donne otterranno i loro diritti richiedendoli agli uomini. Ma lei ha l’infamia di ribattere che il sesso forte è schiavo quanto il sesso debole, che questi non può donare ciò che non ha lui stesso” (Da Memorie, VII, p.132; IX, p.137, p.140-1; XII, p.144)
E’ sempre molto interessata e attenta alle altre donne che incontra nell’esperienza della Comune, o in prigione, o tra i Canachi, o nei rapporti personali. Siano figure veloci di passaggio, o madri di compagni, o prostitute che vogliono collaborare attivamente alla resistenza contro i Prussiani, o Maestre come Nathalie Lemel, è partecipe delle loro storie, delle loro scelte, delle loro sofferenze. Emblematica l’osservazione apparentemente oggettiva, ma che in realtà trasuda sofferta emozione, della vecchina con l’ampolla:
“(…) fummo arrestate. M.me A.L., io e una povera vecchina che stava attraversando la piazza per andare a cercare dell’olio, così da trovarsi nel mezzo della manifestazione. Non lasciava la sua ampolla. E quando sul nostro racconto e, soprattutto, per il suo aspetto sconvolto, testimone eloquente, la si lasciò andare, l’olio cadde sulla sua veste, tanto le sue mani tremavano.” (Da Memorie, XV, p.145)
Con la madre ha un rapporto allo stesso tempo conflittuale (forse perché la madre era cattolica credente e politicamente moderata, per cui non avrebbe voluto che lei si mettesse in tante situazioni di estremo rischio) e inesorabilmente d’amore. Se la porta sempre dietro fin che può, anche nella Parigi della Comune, si preoccupa costantemente, fin sulle barricate, di dove possa trovarsi, se le avrà dato ascolto a non muoversi di casa in certe situazioni, se sta bene, se… Fino a costituirsi ai repressori della Comune che l’hanno arrestata al posto suo. In attesa dell’imbarco per la colonia penale, la rivedrà ancora qualche volta, sempre preoccupata di farle arrivare qualcosa di utile alla sopravvivenza: “Avevo visto mia madre vecchia e mi ero resa conto per la prima volta che i suoi capelli erano diventati bianchi. Povera madre!” (Da Memorie, p.166). Quando in Caledonia sa dell’amnistia che le permetterà il ritorno in patria, il primo pensiero è di raggiungere la madre gravemente sofferente, prima che muoia: “Coloro che non conoscono i rivoluzionari pensano che essi non amino i loro cari, poiché li sacrificano sempre all’idea. In realtà, li amano ancora di più in tutta la grandezza del sacrificio.” (Da La Comune, parte V, p.90). Chissà se la sua continua esigenza di creare scuole, dove si metteva in gioco fino in fondo come ideatrice di nuovi metodi, istitutrice diversa, tesa ad educare alla libera espressione di sé, alla giustizia, all’uguaglianza, venisse più dal bisogno di sperimentare rapporti di formazione diversi da quello non facile vissuto con la madre, che invece dal diploma di maestra conseguito. Certo è che quell’infanzia e giovinezza da romanzo ne hanno fatto un essere originalissimo e ricchissimo di sfaccettature quasi sempre eccezionali. Nasce in un castello, illegittima figlia del nobile rampollo Laurent Demahis e di Marianne Michel, che lavora ai servizi. I castellani nonni paterni l’accolgono con affetto, la nonna che le canta le favole celtiche, il nonno che l’accompagna con la chitarra. Le trasmettono sia le loro convinzioni illuministe che le favolose storie di “fieri cavalieri” che “venivano, come teatranti bizzarri, / a sedersi, presso i gotici focolari” o le storie oscure, durante le “sere nell’ombra”, coi “demoni, guerrieri, briganti,/ spettri e bohémien” e “mille fantasmi erranti”[iv], magari rivissute con Manette nella “tana magica di Vroncourt”, o “al ritmo degli arcolai, degli aghi per la maglia, mescolati al ronron del loro rumorino secco.”, magari mentre “la neve, la grande neve bianchissima, cadendo, si stendeva come un lenzuolo sulla terra” (Da Memorie, XVII, p.159). Fin da piccola, nelle sue scorribande per il villaggio, conosce da vicino la miseria, la fame, la rassegnazione, che non sa accettare, al punto da fare piccoli furti in casa –“denaro, quando ce n’era, perfino frutta, legumi…” – per donarli a nome dei suoi genitori. Aveva limato delle chiavi per aprire gli armadi, e lasciava bigliettini rivoluzionari al posto delle cose che prendeva. “Un anno, mio nonno mi propose 20 soldi a settimana se non avessi più rubato, ma pensai che ci avrei perso troppo.” (Ivi, p.161). Anche se, ormai, ha compreso che non è con la carità che si può dare il pane a ciascuno; non le piacciono e non rispetta i ricchi: “Allora mi venne in mente il comunismo.” (Ivi, p.162). Quando muoiono i nonni, lei e sua madre devono lasciare il castello, ma con una piccola eredità in denaro che permetterà loro di organizzarsi una vita nuova. Che include, tra le varie esperienze didattiche e politiche, lo stretto rapporto epistolare con Victor Hugo e la scrittura. Molto particolare. Spesso lanciata sulle alte punte retoriche della passione politica, dell’impegno sociale, ma qua e là capace di squarci di alta poesia. Come il ritratto del guardiano del cimitero, in Leggende e canzoni di gesta canache (p.93), o certi brani descrittivi del paesaggio, dell’oceano, o certi terribili cammei della realtà:
“Sotto la pioggia intensa dove, di tanto in tanto, alla luce di una lanterna che si sollevava, i corpi riversati nel fango apparivano sotto forma di solchi o onde immobili. Non un movimento nell’orribile distesa su cui l’impero della pioggia creava ruscelli. Si udiva il piccolo rumore secco dei fucili. Si intravedevano le scie luminose dei proiettili sgranati nel mucchio, uccidendo a caso.” (Da La Comune, Parte IV, III,dai bastioni a Satory e a Versailles. Un’immensa ecatombe, un sepolcro. Un covo. p.85)
Forse non tutti sanno la sua storia completa e molti – come a Parigi in questo centocinquantesimo anniversario è ridotta a logo della Comune – la conoscono solo come rivoluzionaria. Per questo ho scritto.
E ringrazio Anna Maria Farabbi che, dalla lettura meditata di tutte le sue opere, ha voluto scegliere i brani che meglio potessero presentarla tutta intera, complessa, variegata, grande di idee proiettate nel futuro e di coraggiose scelte nel suo presente, figlia, nipote, amica, donna. E voglio ringraziare il coraggio e la generosità di editori come Lanfranco Binni e Raffaella Polverini: il primo per avere lanciato il lavoro ed averlo poi lasciato libero nell’impostazione di Farabbi, la seconda per avere preso il testimone da lui, non solo ripubblicando il testo ormai esaurito in una fiammante veste nuova, ma proponendolo in traduzione all’estero.
Riesco a vedere le facce tirate di quelli che la seguono nel corteo funebre: è un dispiacere vero, personale e politico; sanno che lei conosceva davvero la fatica, la miseria, l’oppressione della loro vita e non l’aveva mai messa da parte per dare spazio ai suoi di problemi. Il mondo nuovo che voleva era insieme a loro. Ho imparato a riconoscerle, queste facce, che ritornano a ogni funerale rivoluzionario, magari attorno ai monumentali carri funebri dei cinque lavoratori caduti sotto i colpi dei carabinieri regi mentre erano a un comizio in piazza Grande a Modena, il 7 aprile 1920, per protestare contro un altro eccidio di 8 operai, poco lontano da lì, a Decima di S. Giovanni in Persiceto. O magari quelle facce che Carlo Lizzani filmò durante il funerale dei sei operai uccisi dalla polizia di Scelba davanti alle Fonderie di Orsi, mentre manifestavano contro i licenziamenti. Il 9 gennaio 1950. Anche le date ritornano. Lei morì il 9 gennaio di 45 anni prima. Ed era nata il 29 maggio del 1830. Un giorno dopo quel 28 maggio del 1871 quando finì l’esperienza straordinaria a cui lei aveva partecipato con tanto entusiasmo e coraggio, la Comune di Parigi. Chissà se a qualcuno di quei caduti modenesi gli stava girando per la testa la canzone: Non siam più la Comune di Parigi, che tu, borghese, schiacciasti nel sangue, non più gruppi isolati e divisi…
*
[i] Parole di Anna Maria Farabbi, che ha curato la preziosa cernita dei testi di Louise Michel in è che il potere è maledetto e per questo io sono anarchica, edito da Il Ponte Editore, Firenze, 2017 e riedito da Al3vie di kabaedizioni, Trivolzio (PV) 2021. Parole della presentazione appunto dei brani tratti dal Libro di Herman, quando sembra quasi che la curatrice-poeta stia indicando le linee portanti della propria poetica, come azione di vita e di scrittura. Certamente le due donne hanno straordinari punti di contatto, tanto da poterle vedere, a volte, una specchio dell’altra.
[ii] “Cercare il suo cuore, farsi amare come è nelle sue possibilità. Tutto dipende da questo.” p.35
[iii] Quando partirà da Noumèa per tornare in Francia, sarà molto doloroso il distacco dai Canachi. Aveva aperto una scuola “all’interno delle tribù” e gli indigeni le dicono “con amarezza” che sanno che lei non tornerà più, anche se lei continua a ribadire che, invece no, lei ritornerà. Non per ingannarli, dice. “Non distolsi da loro lo sguardo fin quando potei, poi piansi anch’io.” (Da La Comune, parte V, p.90)
[iv] Da Opere postume, poesia Alla mia nonna, pp.123-4
Il canto dell’altalena, l’oscillazione della figura tra il gioco e il mito di Anna Maria Farabbi uscirà a fine giugno e segnerà la nascita di un’importante e speciale collaborazione fra Al3vie e la casa editrice Pièdimosca.
Riportiamo alcune righe scritte dall’autrice sul blog CasaMatta e tratte dal libro.
Cassandra
La sua bellezza pulsa attraente se non fosse che fin da bambina parla, significando le parole in una lente d’ingrandimento che attraversa il petto delle creature. E’ la perentorietà salda della sua voce che colpisce, ammonisce dalla fuga della realtà. La sua identità nitida, non affiancata, non amata nel senso più profondo del termine, da madre padre fratelli, non si intreccia a amante, esclude la maternità. Vocata a mantenere la sua tensione salvifica, vive tragicamente la parresìa. Quel senso femminile della cura, della responsabilità, dell’eredità comunitaria, la tatua fino alla morte. E’ il suo eccesso prezioso irriducibile che, malgrado ogni suo sforzo, mai è ascoltato, mai salva ma allontana, fa fuggire da lei. L’ottusità degli esseri umani mai impara, ma evade e semplifica e uccide la grilla parlante.